I PROMESSI PROMOSSI

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CAPITOLO I

 

Quell'incrocio dell'ospedale di Viadana, che volge all'I.T.C. tra due catene non interrotte di case, tutte a crepe e a rotture, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelle, vien, quasi a un tratto a restringersi, e a prender corso e figura di strada, tra una casa a destra, e un ampio edificio dall'altra parte; e la fermata che ivi congiunge i due muri, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui la scuola cessa, e le medie ricominciano, per pigliar poi il nome di elementari dove i muri, allontanandosi di nuovo, lascian la bottega della pizza distendersi e nascere in nuovi portici e in nuovi stabili. L'I.T.C., formato dalla costruzione di tre grossi stabili, sale accanto a due palazzoni contigui, l'uno detto Poste Telegrafi, l'altro con voce viadanese, la Rocca, dalle molte sue pizze sfornate, che in vero la fanno somigliare a un forno: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte come per esempio di su le classi della scuola che guardano a Po, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri edifici di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, il marciapiede si allunga con un'inclinatura lenta e continua; poi si ferma e comincia la piazzola della posta, in un'erta ispianata, secondo l'ossatura della casa, e il lavoro umano. Il lembo estremo del parcheggio, tagliato dalle righe, quasi tutte bianche e gialle; il resto, aiuole e alberi, sparsi di fiori, di erba, di foglie; in qualche parte formiche, che si prolungano nelle aiuole. L'Istituto, il principale di quegli edifici, e che prende il nome dalla via, giace poco discosto dalla fermata dell'autobus, al cantiere, anzi, la fermata viene in parte a trovarsi nel cantiere stesso, quando questo ingrossa: un brutto posto al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar rovina. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quell'I.T.C., già considerabile, non era solo una ragioneria normale, e aveva perciò l'onore d'alloggiare l'I.G.E.A., e il vantaggio di possedere due stabili laboratori di informatica, che usavan gli insegnanti e gli alunni della scuola, li usavan di tempo in tempo per vedere alcuni filmati, alcune videocassette; e, sul finir dell'ora, non mancavan mai di dare i compiti ai ragazzi, per farli lavorare, ed esercitare sulle cose imparate. Dall'una all'altra di quelle stanze, dall'aule ai servizi, da un bidello all'altro, correvano e corrono tuttavia, ragazzi e ragazzette, più o men belle, o piane; ogni tanto slanciate, sepolte tra due curve, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di donna e qualche volta soffermate lo sguardo sul monte; ogni tanto sedute sui davanzali bianchi: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un banco, dove un altro, dove un lungo corridoio di quel vasto e variato edificio; di qua I.T.C., chiuso all'estremità o piuttosto circoscritto in un gruppo, in un andirivieni di case, e di mano in mano più allargato tra altri palazzi che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che la piscina fa risaltare, co' campetti posti ai fianchi; di là spogliatoio, poi palestra, poi spogliatoio ancora, che va a finire nelle vecchie medie pur anche loro che l'accompagna, degradando via via, e rinnovandosi anch'essa nella palestra. La classe stessa da dove contemplare que' vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il corridoio di cui passeggiate le classi, vi svolge al di fianco, al di dentro, le sue mattonelle e le balze, distinte, rilevate, mutabili, quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in classe ciò che poco innanzi vi si rappresentava in corridoio: e l'ameno, il domestico di quel pavimento tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre vedute.

Per uno di questi corridoi, arrivava bel bello dalla autostoppata verso la scuola, sulla mattina del giorno 7 novembre dell'anno 1990, Andrea, studente d'una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel computerscritto, né a questo luogo né altrove. Leggeva tranquillamente il suo libro, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i toscani ormai fumati che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'una classe, dove la luce dei neon già accesi, scappando per le fessure della finestra opposta, si dipingeva qua e là sul muro bianco, come a larghe e inuguali pezze d'oro. Aperto poi di nuovi il libro, e letto un altro squarcio, giunse a una voltata del corridoio, dov'era solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, il corridoio correva diritto, forse un cinque passi, e poi si divideva in due scale, a foggio d'un ipsilon: quella a sinistra saliva verso gli altri piani, e menava all'aula di dattilo: l'altra scendeva nei sotterranei fino al cinema; e da questa fino al laboratorio audio. I muri, in vece di riunirsi ad angolo, continuano con alcune fotocopie, sulle quali eran scritte certe cose lunghe, complicate, che finivano con una firma, e che, nell'intenzion del preside, e agli occhi degli studenti dell'I.T.C., venivan lette; e, alternate con le fotocopie, cert'altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire regolamenti vari: regolamenti e fotocopie a color di inchiostro, sur un fondo biancognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Andrea, voltato il corridoio, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che s'aspettava, e che avrebbe voluto vedere. Due ragazzi stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due classi: un di costoro, in piedi appoggiato al muro, con una gamba spenzolata al di fuori, e l'altro piede posato sul pavimento, con le braccia incrociate sul petto; il compagno, in piedi, con il giubbino addosso e lo sguardo perfido. L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il ragazzo dall'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi gli occhi spalancati, quasi chiedendo qualcosa, qualcosa di losco, della quale Andrea non ne era al corrente: due lunghe facce scure in volto: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due fibbie: un piccol fazzoletto nella tasca destra, uscente da questa, come un addobbo: l'immagine d’un portafoglio che spuntava fuori dalla tasca degli stretti e bluastri calzoni: un giubbone, come una gran guardia colorato di verde militare, consegnato come in cifra, forbito e opaco: a prima vista si davano conoscere per individui della specie de' scapestrati.

Questa specie, ora quasi perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de' suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.

Fino, dall'otto aprile dell'anno 1953, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor Enrico Del Vecchio, Preside dell'I.T.C., padre di un figlio maschio, padrone di un Alfa 33 grigia e braccio destro di Sua Maestà il Provveditore in Italia pienamente informato della intollerabile sfacciataggine in che è vissuta e vive questa città di Viadana, per cagione degli scapestrati e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e definisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere scapestrati e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno aiuto alcuno, od avendolo, non lo sfrutteranno... ma, senza promozione, o pur con essa, s'appoggiano a qualche secchione, secchiona, professore o bidello... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a modificare la loro condotta, intima il 7 a' renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l'esecuzione dell'ordine. Ma, nell'anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti scapestrati... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato la loro condotta, né scemato il numero, dà fuori un'altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l'altre ordinazioni, prescrive:

Che qualsivoglia persona, così di questa città, come forestiera, che per due testimoni consterà esser tenuto, e comunemente riputato per scapestrato, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto cazzata alcuna... per questa sola riputazione di scapestrato, senza altri indizi, possa dai detti presidi e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et ancorché non confessi marachella alcuna, tuttavia sia mandato in presidenza, per detto pelata, per la sola opinione e nome di scapestrato, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler esser obbedita da ognuno.

All'udir parole d'un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti gli scapestrati siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d'un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. E' questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Superchi Romano, Professore di Matematica, Professore di Informatica, contestatore maggiore degli scapestrati, insegnante nella città di Viadana, dell'I.T.C. di Viadana, etc. il 5 giugno dell'anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine siano... gli scapestrati e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contro il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare l'Istituto, ripetendo a un dipresso, le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell'anno 1598, informato con non poco dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in quest'Istituto e Città va crescendo il numero di questi tali (scapestrati e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appositamente date, strappature e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi scapestrati d'essere aiutati dai genitori e fautori loro,... prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s'usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua... essendo risoluta e determinata che questa sia l'ultima e perentoria monizione.

Non fu però di questo parere l'Illustrissima ed Eccellentissima Signora, la Signora Donna Piera Gavetti di Viadana, Professore d'Inglese, famosa per la rigorosità da lei pretesa; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di scapestrati che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 dicembre 1600, una nuova grida piena anch'essa di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite.

Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell'ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Ovidio Soliani; giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel professore il professore di Tecnica Amministrativa, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de' scapestrati, certo è che esso continuava a germogliare, il 22 settembre dell'anno 1612. In quel giorno l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signore Don Enrico del Vecchio di Viadana, etc. pensò seriamente ad estirparlo. A quest'effetto, spedì alla Gavetti e Superchi, stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad esterminio de' scapestrati. Ma questi vissero ancora per ricevere, il 24 dicembre dell'anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Enrico del Vecchio di Viadana, etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Enrico del Vecchio di Viadana, sotto la cui presidenza accadde l'arrivo di Andrea, s'era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro gli scapestrati, il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento.

Né fu questa l'ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio dell'anno 1632, nella quale l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Preside de Viadana, per la seconda volta preside, ci avvisa chele maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano scapestrati. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c'era de' scapestrati tuttavia.

Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque ad Andrea fu il dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un tratto avevano detto: è lui; quello che stava appoggiato al muro s'era staccato, tirando la sua gamba in avanti; l'altro s'era spostato; e tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il libro di chimica aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sé stesso, se, tra gli scapestrati e lui, ci fosse qualche uscita di corridoio, a destra o a sinistra, e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, come se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: gli scapestrati però s'avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel colletto, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del termosifone, nel cortile: nessuno; un'altra più modesta sul corridoio dinanzi; nessuno, fuorché gli scapestrati. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell'incertezza erano allora così pensosi per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un paragrafo a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.

"Signor Andrea", disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia.

"Cosa comanda?" rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.

"Lei ha intenzione," proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia, "lei ha intenzione di non far passare domani Renzo Marinoni e Paola Catterina!"

"Cioè..." rispose, con voce tremolante, Andrea: "cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero alunno non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune."

"Or bene", gli disse lo scapestrato, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, "in questo compito s'ha da passare, sia domani, che sempre."

"Ma, signori miei," replicò Andrea, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, "ma, signori miei, si degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca..."

"Orsù," interruppe lo scapestrato, "se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende."

"Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragioevoli..."

"Ma," interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, "ma nel compito si passerà, o..." e qui una buona bestemmia, "o chi non lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e..." un'altra bestemmia.

"Zitto, zitto," riprese il primo oratore: "il signor Andrea è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor Andrea, l'illustrissimo signor don Matteo nostro alleato la riverisce caramente."

Questo nome fu, nella mente di Andrea, come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: "se mi sapessero suggerire..."

"Oh! suggerire a lei che sa di latino!" interruppe ancora lo scapestrato, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. "A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che passare in quel compito. Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don Matteo?"

"Il mio rispetto..."

"Si spieghi meglio!"

"...Disposto... disposto sempre all'ubbidienza." E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. Gli scapestrati le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.

"Benissimo, e buona giornata, messere," disse l'un d'essi, in atto di partir col compagno. Andrea, che pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. "Signori..." cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero il corridoio donde stava andando, e s'allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero Andrea rimase un momento a bocca aperta, come incanto; poi prese quello dei due corridoi che tornava a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era toccato di vivere.

Andrea (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprender che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza scolare non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d'impedimento a proferire una condanna: gli squarci che abbiam riportati delle gride contro gli scapestrati, ne sono un piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l'impotenza de' loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifisti e i deboli già soffrivano da' perturbatori, e d'accrescer le violenze e l'astuzia di questi. L'impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest'impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all'apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l'uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d'esecutori d'ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un bagno, in un corridoio, dove i prof. non avrebber mai osato metter piede; chi, senza altre precauzioni, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l'interesse d'un prof. potente, di tutto ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch'eran deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben guardati dall'offenderle, per amor d'un pezzo di carta attaccato sui muri. Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata, quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com'eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d'essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò costoro eran generalmente de' più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l'incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece d'arrischiare, anzi di gettar la vita in un'impresa disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove non c'era pericolo; nell'opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa.

L'uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d'essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que' tempi, portata al massimo punto la tendenza degl'individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arruolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l'individuo trovava il vantaggio d'impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l'impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.

Il nostro Andrea, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero studente dell'I.T.C. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini dell'anno al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Andrea, assorbito continuamente ne' pensieri della propria quiete, non si curava di que' vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d'adoperarsi molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra i prof. e gli studenti, tra i maschi e le femmine, tra i terroni e i nordisti, fino alle questioni tra due amici, nata da una parola, e decise coi pugni, o con le pedate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all'altro ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da' prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un'intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d'inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era riuscito a passare i quattordici anni, senza gran burrasche.

Non è però che non avesse anche lui il suo po' di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po' di sfogo, la sua salute n'avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v'eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, Andrea sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava contro que' suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d'un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava a comprarsi gl'impicci a contanti, un voler raddrizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch'era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro anno. E contro questi predicava, sempre però a quattr'occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi panni, non accadon mai brutti incontri.

Pensino ora i miei venti lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato. Lo spavento di que' visacci e di quelle parolacce, la minaccia d'un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch'era costato tant'anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di Andrea. - Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel sì, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, E poi, perduto dietro a quella Paola, secchione come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, studiano, non voglion passare, e non pensano ad altro; non si fanno carico de' travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Sono io che non voglio passare? Perché non son andati piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l'occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro imbasciata... - Ma, a questo punto, s'accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell'iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de' suoi pensieri contro quell'altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Matteo che di vista e di fama, né aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l'aveva incontrato per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d'un'occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch’era un rispettabile "capo". Ma, in quel momento, gli diede in cuor suo tutti que' titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, al banco della classe sua, ch'era in mezzo alle tre file, mise in fretta nello zaino il libro, che già teneva in mano; lo aprì, lo mise dentro, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: "Francesca! Francesca!", avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva essere certamente ad aspettar quel ragazzo che le piaceva. Era Francesca, come ognun se n'avvede, l'amica di Andrea: amica affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini dell’amico, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l'età puerile dei dieci, rimanendo vergine (???), per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un ragazzo che la volesse, come dicevan le sue amiche.

"Vengo," rispose, spostando sul tavolo, al luogo solito, lo zaino di scuola prediletto di Andrea, e si mosse lentamente; ma non aveva ancora toccata la soglia del suo banco, ch'egli v'arrivò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Francesca, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.

"Misericordia! cos'hai, Andrea?"

"Niente, niente," rispose Andrea, lasciandosi andar tutto ansante sulla sua sedia.

"Come niente? La vuoi dare ad intendere a me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto."

"Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire."

"Che non puoi dir neppure a me? Chi si prenderà cura della tua salute? Chi ti darà un parere?..."

"Ohimé! taci, e non dire altro: datemi il mio zaino e basta."

"E tu mi vorresti sostenere che non hai niente!" disse Francesca, spostando lo zaino, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.

"Dai qui, dai qui," disse Andrea, prendendole lo zaino, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una bomba.

"Vuoi dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio amico?" disse Francesca, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.

"Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita!"

"La vita!"

"La vita."

"Sai bene che, ogni volta che m'hai detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai..."

"Brava! come quando..."

Francesca s'avvide d'aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito tono, "amico," disse, con voce commossa e da commovere, "io ti sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterti soccorrere, darti un buon parere, sollevarti l'animo..."

Il fatto sta che Andrea aveva forse tanta voglia di scariscarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Francesca di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Francesca proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e Andrea, pronunziato quel nome, si rovesciò sullo schienale della sedia, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: "per amor del cielo!"

"Delle sue!" esclamò Francesca. "Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!"

"Vuoi tacere? o vuoi rovinarmi del tutto?"

"Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farai, povero Andrea?"

"Oh vedi," disse Andrea, con voce stizzosa: "vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell'impiccio, e toccasse a me di levarmela."

"Ma! io l'avrei bene il mio povero parere da darti; ma poi..."

"Ma poi, sentiamo."

"Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro prof. di mate è un sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un alunno, ci gongola; io direi, e dico che tu gli scrivesti una bella lettera, per informarlo come qualmente..."

"Vuoi tacere? vuoi tacere? Son pareri codesti da dare a un pover'alunno? Quando mi fosse toccata una man di botte dappertutto, Dio liberi! il prof. me la leverebbe?"

"Eh! le botte non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché tu non vuoi mai dir la tua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono con licenza, a..."

"Vuoi tacere?"

"Io taccio subito; ma è però certo, che quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le..."

"Vuoi tacere? É tempo ora di dir codeste baggianate?"

"Basta: ci penserai questa mattina; ma intanto non cominciare a farti male da te, a rovinarti la salute; mangia un boccone."

"Ci penserò io," rispose, brontolando Andrea: "sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare." E s'alzò, continuando: "non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l'appunto a me."

"Mandi almen giù quest'altro gocciolo," disse Francesca, mescendo. "Tu sai che questo ti rimette sempre lo stomaco."

"Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro."

Così dicendo, prese il suo ESTA-TÉ, e, brontolando sempre: "una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e oggi com'andrà?" e altre simili lamentazioni, s'avviò per sentire la lezione. Giunto a metà dell'ora, si voltò di fianco verso Francesca, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne: "per amor del cielo!" e tacque.

 

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