I PROMESSI PROMOSSI

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CAPITOLO II

 

Si racconta che il principe di *** dormì profondamente la notte avanti la giornata di ***: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Andrea in vece non sapeva altro ancora se non che la mattina sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della prima ora fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell'intimazione ribalda, né delle minacce, e non fare passare durante il compito, era un partito, che non volle mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l'occorrente, e cercar con lui qualche mezzo... Dio liberi! "Non si lasci scappar parola... altrimenti... ehm!" aveva detto un di que' scapestrati; e, al sentirsi rimbombar quell'ehm! nella mente, Andrea, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell'aver ciarlato con Francesca. Fuggire? Dove? E poi! Quant'impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il povero ragazzo si rivoltava sulla sedia. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per la passata; - e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose. - Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po' leggeri, pur s'andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. - Vedremo, - diceva tra sé: - egli pensa al compito; ma io penso alle palle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo - Fermato così un poco l'animo a una deliberazione, poté finalmente sentir la lezione: ma che mattina! che pensieri! Scapestrati, Matteo, Renzo, viottole, corridoi, fughe, falsificazioni, interrogazioni, botte da orbi.

La ricreazione, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all'idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, Andrea ricapitolò subito i suoi disegni della mattina, si confermò in essi, li ordinò meglio, s'alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza.

Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al ragazzo, v'andò, con la lieta furia d'uno studente di quindici anni, che deve di lì a poco fare un compito in classe sulla materia che ama. Era, fin dall'infanzia, un grande secchione, ed esercitava la professione di studente modello, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai scomoda; allora già in ascesa, ma non però a segno che un abile studente non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno aumentando; ma l'emigrazione continua de' studenti di altri paesi attirati in quel paese da promesse, da privilegi e da grossi voti, faceva sì che non ne mancasse ancora di quelli che erano del paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un bomberetto nero che faceva ridere e rideva egli stesso, quando era da solo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi inappropriato. E quantunque quell'annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia di voti, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Paola, era divenuto super-secchione, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame di livelli 4. Comparve davanti ad Andrea, in gran gala, con felpa di vario colore, coi suoi jeans belli addosso, con una certa aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L'accoglimento incerto e misterioso di Andrea fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto.

- Che abbia qualche pensiero per la testa, - argomentò Renzo tra sé; poi disse: "son venuto, signor Andrea, per sapere se hai già chiesto a quelli di II A il testo del compito."

"Di che compito vuoi parlare?"

"Come, di che compito? non ti ricordi che c'è il compito in clase?"

"Compito in classe?" replicò Andrea, come se ne sentisse parlare per la prima volta. "Compito, compito... abbi pazienza, ma non mi ricordo."

"Non ti ricordi! Cos'è nato?"

"Prima di tutto, non mi sento bene, vedi."

"Mi dispiace; ma quello che hai da fare è cosa di poco tempo, e di così poca fatica..."

"E poi, e poi, e poi..."

"E poi che cosa?"

"E poi c'è degli imbrogli."

"Degl'imbrogli? Che imbrogli ci può essere?"

"Bisognerebbe trovarsi nei miei piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s'ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de' rimproveri, e peggio."

"Ma, col nome del cielo, non mi tener così sulla corda, e dimmi chiaro e netto cosa c'è."

"Sai tu quante e quante formalità ci vogliono per avere il compito prima degli altri?"

"Bisogna ben ch'io ne sappia qualche cosa," disse Renzo, cominciando ad alterarsi, "poiché me ne hai già rotto bastamente le palle, questi giorni addietro. Ma ora non s'è sbrigato ogni cosa? non s'è fatto tutto ciò che s'aveva a fare?"

"Tutto, tutto, pare a te: perché, abbi pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi poveri studenti non secchioni siamo tra l’incudine e il martello: tu impaziente; ti compatisco, povero secchione; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo."

"Ma spiegami una volta cos'è quest'altra formalità che s'ha a fare, come dice; e sarà subito fatta."

"Sai tu quanti siano gl'impedimenti dirimenti?"

"Che vuol ch'io sappia d'impedimenti?"

"Si prof. spiccae pelatinorum dae, et to presidae io finissae, pure espulsiorum rischium...", cominciava Andrea, contando sulla punta dalle dita.

"Ti pigli gioco di me?" interruppe il giovine. "Che vuoi ch'io faccia del tuo latinorum?"

"Dunque, se non sai le cose, abbi pazienza, e rimettiti a chi le sa."

"Orsù!..."

"Via, caro Renzo, non andare in collera, che son pronto a fare... tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vederti contento; ti voglio bene io (!!!!). Eh!... quando penso che stavi così bene; cosa ti manca? T'è saltato il grillo (?!?!) di non passare..."

"Che discorsi son questi, compagno mio?" proruppe Renzo, con un volto tra l'attonito e l'adirato.

"Dico per dire, abbi pazienza, tant par dir quel. Vorrei vederti contento."

"In somma..."

"In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l'ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti."

"Ma via, dimmi una volta che impedimento è sopravvenuto?"

"Abbi pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: vietatum passarea in tu compitum."

"Ti ho detto che non voglio latino."

"Ma bisogna pur che ti spieghi..."

"Ma non le hai già fatte le ricerche?"

"Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, ti dico."

"Perché non le hai fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? perché aspettare..."

"Ecco! mi rimproveri la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirti più presto: ma... ma ora mi son venute... basta, so io."

"E che vorresti ch'io facessi?"

"Che avesti pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l'eternità: abbiate pazienza."

"Per quanto?"

- Siamo a buon porto, - pensò fra sé Andrea; e, con un fare più manieroso che mai, "via," disse: "in quindici giorni cercherò..."

"Quindici giorni! oh questa sì ch'è nuova! S'è fatto tutto ciò che hai voluto; s'è fissato; il giorno arriva; e ora mi vieni a dire che aspetti quindici giorni! Quindici..." riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell'aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se Andrea non l'avesse interrotto, prendendogli l'altra mano, con un'amorevolezza timida e premurosa: "via, via, non t'alterare, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana..."

"E se te lo chiedesse la Paola?"

"Sarebbe la stessa cosa."

"E cosa diranno gli altri?"

"Dì pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: getta tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana."

"E poi, non ci sarà più altri impedimenti?"

"Quando vi dico..."

"Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non m'appagherò più di chiacchiere. Intanto vado a prendere un ICE-TEA." E così detto, se n'andò, dando ad Andrea un'occhiata più brutta del solito, e dandogli un saluto più espressivo che riverente.

Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la macchinetta dell'ICE-TEA, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio: e sempre più lo trovava strano. L'accoglienza fredda e impicciata di Andrea, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que' due occhi marroni che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d'incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del compito in classe così espressamente concertato, e sopra tutto quell'accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Lorenzo o come dicevan tutti Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che Andrea aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide la Francesca che camminava dinanzi a lui, ed entrava in palestra pochi passi distante dalla macchinetta. Le diede una voce, mentre essa apriva l'uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attaccar discorso con essa.

"Buon giorno, Francesca: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme (?!?!?!?!?)."

"Ma! quel che Dio vuole, il mio scion Lorenzo o come dicevan tutti Renzo."

"Fammi un piacere: quel benedett'uomo di Andrea m'ha impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegami tu meglio perché non può o non vuole andare a prendere il testo del compito oggi."

"Oh! ti par egli ch'io sappia i segreti del mio padrone?"

-L'ho detto io, che c'era mistero sotto, - pensò Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: "suvvia, Francesca; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliolo."

"Mala cosa nascer scion, il mio caro Renzo."

"É vero," riprese questo, sempre più confermandosi ne' suoi sospetti; e, cercando d'accostarsi più alla questione, "è vero," soggiunse, "ma tocca agli amici a trattar male co' scion?"

"Senti, Renzo; io non posso dir niente, perché... non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che Andrea non vuol far torto, né a te né a nessuno; e lui non ci ha colpa."

"Chi è dunque che ci ha colpa?" domandò Renzo, con un cert'atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l'orecchio all'erta.

"Quando ti dico che non so niente... In difesa di Andrea, posso parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover'uomo! se pecca, è per troppa bontà. C'è bene a questo mondo de' birboni, de' prepotenti, degli studenti senza timor di Dio..."

-Prepotenti! birboni! - pensò Renzo: - questi non sono i superiori. "Suvvia," disse poi, nascondendo a stento l'agitazione crescente, "suvvia, ditemi chi è."

"Ah! tu vorresti farmi parlare; e io non posso parlare, perché... non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potresti darmi la corda, che non mi caveresti nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt'e due." Così dicendo, entrò in fretta in palestra, e chiuse l'uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell'orecchio della buona donna, allungò il passo; in un momento fu all'uscio della classe; entrò, cercò Andrea, lo trovò, e corse verso di lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.

"Eh! Eh! che novità è questa?" disse Andrea.

"Chi è quel prepotente," disse Renzo, con la voce d'un uomo ch'è risoluto d'ottenere una risposta precisa, "chi è quel prepotente che vuol ch'io passi nel compito assieme alla Paola?"

"Che? che? che?" balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dalla sua seggiola, per lanciarsi all'uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all'erta, vi balzò prima di lui, lo chiuse e ci si mise davanti.

"Ah! ah! parlerai ora, Andrea? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch'io. Come si chiama colui?"

"Renzo! Renzo! per carità, bada a quel che fai; pensa all'anima tua."

"Penso che lo voglio saper subito, sul momento." E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino.

"Misericordia!" esclamò con voce fioca Andrea.

"Lo voglio sapere."

"Chi t'ha detto..."

"No, no; non più fandonie. Parla chiaro e subito."

"Mi vuoi morto?"

"Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere."

"Ma se parlo, son morto. Non m'ha da premere la mia vita?"

"Dunque parli."

Quel "dunque" fu proferito con una tale energia, l'aspetto di Renzo divenne minaccioso, che Andrea non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire.

"Mi prometti, mi giuri," disse "di non parlarne con nessuno, di non dir mai...?"

"Ti prometto che fo uno sproposito, se non mi dici subito il nome di colui."

A quel nuovo scongiuro, Andrea, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tenaglie del cavadenti, proferì: "Mat..."

"Mat...?" ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l'orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all'indietro.

"Matteo!" pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch'era costretto a metterla fuori.

"Ah cane!" urlò Renzo. "E come ha fatto? Cosa le ha detto per...?" quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. "Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c'entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo." E qui si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d'una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò allegramente: "avevi fatto una bella azione! M'hai reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al tuo compagno! in classe sua! in luogo pubblico! Hai fatto una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il tuo malanno! Ciò ch'io ti nascondevo per prudenza, per tuo bene! E ora che lo sai? Vorrei vedere che mi facesti...! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, ti davo un buon parere... eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per te; ma come si fa? Apri almeno; togliti di lì."

"Posso aver fallato," rispose Renzo, con voce raddolcita verso Andrea, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: "posso aver fallato; ma si mettiti la mano al petto, e pensa se nel mio caso..."

"Così dicendo, s'era levato dalla porta, e aveva aperto. Andrea gli andò dietro, e, mentre quegli girava la maniglia se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, "giura almeno..." gli disse.

"Posso aver fallato; e scusami," rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire.

"Giura..." replicò Andrea, afferrandogli il braccio con la mano tremante.

"Posso aver fallato," ripeté Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che, al pari d'una questione di letteratura o di filosofia o d'altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio argomento.

"Francesca! Francesca!" gridò Andrea, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Francesca non risponde: Andrea non sapeva più in che mondo fosse.

É accaduto più d'una volta a personaggi di ben più alto affare che Andrea, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a sedere, con la febbre. Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della mattina, la paura avuta in quel momenti, l'ansietà dell'avvenire, fecero l'effetto. Affannato e balordo, si ripose sulla sua sedia, cominciò a sentirsi qualche brivido nell'ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: "Francesca!" La venne finalmente, con una gran schiacciatina nelle mani, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i "tu sola puoi aver parlato", e i "non ho parlato", tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che Andrea ordinò a Francesca di metter andargli a prendere una camomilla, di non aprir più bocca per nessuna cagione, e, se alcun chiedesse, risponder di non saper niente. Andò a telefonare a casa, dicendo, ogni tre passi, "son servito"; e se ne andò davvero a casa, dove lo lasceremo.

Renzo intanto camminava a passi infuriati verso la Paola, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d'ogni insidia; ma, in que' momenti, il suo cuore non batteva che per l'omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre a casa di Matteo, afferrarlo per il collo, e... ma gli veniva in mente ch'era come una fortezza, guarnita di scapestrati al di dentro, e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti v'entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un studentello sconosciuto non vi potrebb'entrare senza un esame, e ch'egli sopra tutto... egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d'appiattarsi dietro la siepe vicino a casa sua, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell'immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d'alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo. - E la Paola? - Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v'entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de' suoi compiti, si rammentò di Dio, della Media e delle elementari, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi con dei bei voti, all'orrore che aveva tante volte provato al racconto d'un livello 1; e si risvegliò da quel sogno di terrore, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Paola, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante scommesse, un compito così sperato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell'iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un'ombra tormentosa gli passava per la mente. Quella soverchieria di Matteo non poteva esser mossa che da una brutale passione per i bigliettini. E Paola? Che avesse dato a colui la più piccola occasione, il più piccolo bigliettino, non era un pensiero che potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma n'era informata? Poteva colui aver concepita quell'infame passione, senza che lei se n'avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d'averla tentata in qualche modo? E Paola non ne aveva mai detta una parola a lui! al suo rivale nei compiti in classe!

Dominato da questi pensieri, passò davanti all'ascensore, ch'era nel mezzo del corridoio, e, attraversatolo, s'avviò alla macchinetta dov'era la Paola, ch'era in fondo anzi, prima delle scale. Andava a quella macchinetta ogni volta che voleva qualcosa da bere, o qualcosa da mangiare, faceva spesso la coda alla macchina scambia 1000. Renzo la vide, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva dal distributore. S'immaginò che sarebbero amiche e amici, venuti dalle loro classi per bere o mangiare; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una primina che si trovava nel corridoio, gli corse incontro gridando: "il secchione! il secchione!"

"Zitta, zitta!" disse Renzo. "Vien qua; va dalla Paola, tirala in disparte, e dille all'orecchio... ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve'... dille che ho da parlarle, che l'aspetto in classe, e che venga subito." La primina andò in fretta dalla Paola, lieta e superba d'avere una commision segreta da eseguire.

Paola parlava in quel momento tutta gasata dall'amica preferita. Le altre amiche si rubavano qualche consiglio, e le facevan forza perché passasse qualcosa; e lei s'andava schermendo, con quella modestia un po' guerriera delle secchione, facendosi spiegare il perché avrebbe dovuto passare qualcosa, aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s'apriva al sorriso. I castani e giovanili capelli, spartiti sopra la testa, con una bianca e sottile riga, si penzolavan tutt'attorno, in strisce molteplici, trapassate solo dai raggi del sole, come se avesse un aspetto quasi divino. Intorno al collo aveva una catena e accanto alle orecchie due orecchini: portava una bella felpa di fumato nero, con le maniche lunghe e i polsini stretti: degli attillati jeans neri anch'essi, a ricami sulle tasche. Oltre a questo, ch'era l'ornamento particolare del giorno, Paola aveva quello quotidiano, d'una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggero, quel placido accoramento che si mostra di quand'in quando sul volto delle secchione, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La primina si cacciò nel crocchio, s'accostò a Paola, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all'orecchio.

"Vo un momento, e torno," disse Paola alle amiche; e andò in classe in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, "cosa c'è?" disse, non senza un presentimento di terrore.

"Paola!" rispose Renzo, "per il compito in classe, bisogna passare; e Dio sa quando potremo farne uno in pace."

"Che?" disse Paola tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di Matteo, "ah!" esclamò, arrossendo e tremando, "fino a questo segno!"

"Dunque tu sapevi...?" disse Renzo.

"Pur troppo!" rispose Paola; "ma a questo segno!"

"Che cosa sapevi?"

"Non mi far ora parlare, non mi far piangere. Corro a chiamar la mia migliore amica, e a licenziar le altre: bisogna che siam soli."

Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: "non m'hai mai detto niente".

"Ah, Renzo!" rispose Paola, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Paola, voleva dire: puoi tu dubitare ch'io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?

Intanto la buona Loredana (così si chiamava l'amica della Paola), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all'orecchio, e dallo sparir dell'amica, era corsa a veder cosa c'era di nuovo. L'amica la lasciò con Renzo, tornò alle amiche radunate, e, accomodando l'aspetto e la voce, come poté meglio, disse: "Andrea è ammalato; ed è andato a casa, quindi lasciatemi chiedere come è successo agli altri". Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.

Le amiche sfilarono, e si sparsero a raccontar l'accaduto. Due o tre andaron fin all'uscio della classe per verificar se era ammalato davvero.

"Un febbrone," rispose Francesca dalla porta; e la trista parola, riportata all'altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne' loro cervelli, ed ad annunziarsi tronche e misteriose ne' loro discorsi.

 

Capitolo I Introduzione Capitolo III
     
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